Four of a kind nasce da un’urgenza perentoria di Morante,
Pignatelli, Guarini e Marangolo: dimostrare a tutti che sono loro i veri
Goblin. I quattro musicisti scelgono la strada più difficile, realizzare in studio
un album di inediti, gettando un vero e proprio guanto di sfida in faccia a
Simonetti ed ai suoi Goblin/Daemonia che da decenni si limitano in pratica a
riproporre il repertorio storico. Questo è il campo di battaglia atteso dai fan,
non certo quello dei social media teatro di sterili ed umilianti polemiche. Una sfida già vincente solamente per il coraggio dimostrato ma che i
Goblin 4 (nome scelto per aggirare il copyright che è detenuto dalla Cinevox)
portano a compimento con successo, mostrando progressi sul fronte compositivo
ed esecutivo rispetto al precedente BackToTheGoblin2005. Progresso che
trova fondamento, oltre che nella voglia di rivalsa, dalla circostanza che
mentre BTTG2005 era nato come il lavoro di studio di una band che non suonava
assieme da anni, 4K si è sviluppato dopo l’esperienza live che ha riacceso
l’interazione tra i musicisti anche se a livello compositivo si sentono
chiarissime le influenze dei vari autori, tanto che, in quelle firmate a più
mani, è possibile addirittura distinguere i ‘blocchi’ composti da ogni singolo
musicista. A livello compositivo la parte da leone la fa Pignatelli che firma
‘in solitaria’ tre pezzi e collabora alla stesura di altri tre. Fabio, oltre al
basso, suona le tastiere, talvolta con uno stile ‘simonettiano’, a tal punto che,
per quanto riguarda l’attività in studio, è come se i Goblin 4 avessero due
tastieristi in formazione. Quasi di conseguenza Guarini rimane un po’ più in
ombra, firma da solo un pezzo (ne aveva scritto anche un’altro che però è stato
‘cassato’ da Morante) e collabora alla stesura di altri due ma le sue parti di
tastiera sono efficaci. Morante compie un bel passo avanti di riavvicinamento
all’estro solistico degli anni ’70. Marangolo è molto più ispirato rispetto a BTTG2005,
sfoggiando più scomposizioni e fill in un singolo brano che molti batteristi in
un intero album.
Per quanto riguarda la copertina,
l’artwork di Sean Chappell ha diviso i fan: ad alcuni è piaciuto, altri l’hanno
odiato, giudicandolo brutto e fuorviante. Per quanto mi riguarda e per l’idea
che ho dei ‘Goblin’, diciamo che la giudico poco adatta. E’ una copertina da
band metal ma per me i Goblin sono altro, un fenomenale amalgama musicale
proprio perché la band è formata da musicisti che possono suonare (e spesso hanno
suonato) i più disparati generi: prog, rock, funky, disco, fusion, hard,
mantenendo sempre il tocco che li contraddistingue. E’ anche vero che ai
concerti dei ‘Goblin’ la parte predominante del pubblico sta diventando di
estrazione metal con gli amanti del progressivo che, anche per ragioni d’età,
sono in calo. E poi non c’è foto in cui Morante non sfoggi le corna care a
Ronnie James Dio (ma mostrate per primi dai Coven, già originari utilizzatori
del disegno del diavolo di Boilly, quello che appare sulla copertina di Roller,
come ho riportato qui), cosa che di certo non fanno Steve
Hackett o Martin Barre. Per cui se i Goblin ritengono che il loro pubblico
prevalente sia di metallari, la scelta della cover è corretta. I due acrilici
di Sean Chappell (in pratica campo e controcampo del diavolo che gioca a poker
utilizzando un mazzo di carte in cui i ‘K’ hanno i volti dei musicisti) sono di
gran lunga le opere migliori che ho visto sul sito dell’autore, per cui da
parte sua l’impegno è stato massimo e tecnicamente sono ben eseguiti. Carina
poi l’idea di dare ad ogni musicista un ‘seme’ personalizzato e di
contrassegnare gli ospiti (Antonio Marangolo ed Aidan Zammit) con due ‘matte’
diverse.
Ma veniamo ai singoli brani. Vi
avverto subito che la mia sarà una recensione sui generis, ben diversa da
quelle usuali, una specie di esperimento in cui descrivo la musica e le
sensazioni che mi provoca, compresi i film mentali che ho immaginato ascoltando
(per la quarta volta, quindi a brani già memorizzati) l’intero album, canzone
dopo canzone, prendendo appunti ed elaborando le storie (e vi rassicuro che non
faccio e non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti!!) che magari potrebbero
cambiare od arricchirsi nel corso di ulteriori ascolti.
Uneven Times
(Pignatelli, Morante, Guarini, 7’25”). Un suono oscuro di synth, un giro ad
anello di tastiere atmosferico e maligno, entrate imperiose di batteria che si
produce in sapienti fill e di chitarra elettrica con svisate. I Goblin sono
tornati! Il tempo si acquieta, le tastiere espongono il tema incalzate dal
basso elettrico in veste solista che si esprime in giri armonici potenti,
talvolta all’unisono con le tastiere. Voci campionate, la chitarra elettrica
suona un tema in crescendo di poche note sostenute, altri break portano ad un
lunghissimo bridge cadenzato da batteria ed elettrica su cui il synth ricama un
tema progressivo, contrappuntato dalla chitarra per dare spazio a nuove entrate
in crescendo che portano ad una apertura più pacata su cui il sax si produce in
un assolo nervoso, addirittura stridente nella parte conclusiva che conduce al
finale, in cui viene ripreso il tema chitarristico.
I Goblin 4 decidono di aprire Four
of a Kind con il pezzo più ‘difficile’ del nuovo lavoro. Una quasi
suite che non assomiglia a nulla prodotto dalla band in precedenza ma che pure
è marchiato a fuoco Goblin, mescolando progressive anni ’70 (Yes) e più moderno
(i Rush di Marathon nell’apertura a
4’40”) con l’apporto di Antonio Marangolo al sax che realizza un assolo ben
diverso da quelli che aveva regalato ai Goblin in passato, quasi ostico,
depurato da facili armonie.
In the name of Goblin (Morante, 4’40”). Un synth con
voce di donna fa capolino e fugge, la chitarra acustica elettrificata arpeggia
mentre le dita strisciano sulle corde alla ricerca degli accordi, il moog
intona giulivo il suo canto di morte, entra imperiosa la sezione ritmica con
ancora il moog a svisare. La chitarra elettrica esegue il tema del brano, una
armonia semplice ed efficace, sostenuta dall’organo e da un basso arrembante.
Il pezzo si ferma e inizia nuovamente con belle entrate di batteria e basso,
note atmosferiche di synth, solismi di basso per poi ripetere lo sviluppo.
In the name of Goblin, titolo programmatico per l’intero lavoro, è un evidente omaggio a Profondo rosso per l’arpeggio di
acustica, il moog e l’organo ma le note iniziali di tastiera richiamano anche
lo score per nonhosonno mentre le
linee di basso ricordano le scale variegate di Roller. Ciò nonostante, il brano ha una sua valenza autonoma ed una
indubbia efficacia, tanto che mentre lo ascoltavo mi è venuto in mente il
soggetto per il seguito del capolavoro di Dario Argento, naturalmente con In the name of Goblin come main theme.
La soluzione
della catena di omicidi legati alla morte della sensitiva Helga Ullman aveva segnato nel corpo e
nell’anima la giornalista Gianna Brezzi. Nonostante l’amore per Marc e la
nascita del figlio Carlo, la serenità si era infranta. Ed ora, a distanza di 40
anni, le ricerche di uno studente di musica, intenzionato a ritrovare Marc
Daly, ritiratosi dalle scene dopo aver composto, ispirato a quei tragici
avvenimenti, quello che è considerato il capolavoro del jazz-rock psichedelico
e poi scomparso nel nulla, riportano alla luce angosce terribili. Tutte quelle
domande sconvolgono anche Carlo, così sensibile ed introverso che da Marc ha
ereditato un grande talento musicale che però ha ripudiato, come segno di
ribellione verso un padre che l’ha abbandonato, forse per tornarsene negli USA.
E poi nuovi delitti insanguinano Roma, preceduti dalle note di una celebre
canzone dei Goblin, ‘Profondo rosso’, proprio il brano che aveva segnato la
storia d’amore tra Marc e Gianna….
Mousse roll (Guarini,
5’00”), inizia su un tema di carillon su cui si innesta il bouzuki, colpi in
stereo di percussioni elettroniche, una voce sintetica di bimbo che intona una
triste nenia su cui entra l’organo e quindi la batteria in un mid-tempo segnato
dalla chitarra elettrica mentre le tastiere riprendono il tema e si impegnano
in variazioni solistiche per poi sfumare come all’inizio.
Questa volta il modello di
riferimento è Suspiria ed il pezzo
sembra quasi una vendetta personale del tastierista dopo che Simonetti su FB
aveva negato qualsiasi partecipazione di Maurizio a quello score come invece
affermato da Guarini anche nel mio libro.
Il piccolo Albert
è sopravvissuto all’incendio che ha devastato l’accademia di danza di Friburgo,
causando la morte dello staff di insegnanti e del personale di servizio. Il
bambino viene affidato alle cure di una coppia che ben presto avrà modo di
constatarne stranezze caratteriali e comportamentali. Albert di nascosto
tortura a morte gli animali e poi li riporta in vita intonando formule magiche
per torturarli nuovamente e servirsene per fare del male. L’arrivo dei nuovi
vicini di casa e della loro figlia….
Bon ton (Marangolo,
Pignatelli, 4’32”). Suoni drammatici, percussioni, un ritmo incalzante e
cadenzato, fantastiche svisate sintetiche di tastiere. Poi la batteria
sparisce, rimangono le percussioni, synth atmosferici ed il basso che tira
fuori un giro fusion, spunto irresistibile per la batteria che innesca uno
shuffle su cui la chitarra elettrica arpeggia accordi rock’n’roll per poi
partire in un lungo assolo melodico ed intenso.
Bon ton è tra le
cose migliori dell’album, un pezzo scritto dalla sezione ritmica (e si sente!)
che pur evocando in alcuni suoni e cadenze Killer
on the train e Sleepwalking è
del tutto nuovo. Marangolo e Pignatelli sono accreditati anche come tastieristi
(manca invece in questo pezzo Guarini) ma voglio pensare che l’indovinatissimo
assolo di synth sia dell’ospite Aidan Zammit che così viene ripagato per il
prezioso contributo che ha saputo dare nell’attività concertistica della band.
Morante si ritaglia un bel assolo ed il pezzo si conclude in modo aperto con un
giro di chitarra elettrica ed il ‘tiro’ della sezione ritmica, un innesco
perfetto per assoli incrociati qualora il pezzo venisse eseguito (come spero)
live.
Kingdom (Pignatelli,
5’30). Synth ondivaghi, un giro di pianoforte ed un tema malinconico di synth,
ripreso dalla elettrica, un movimento percussivo elettronico marziale su cui si
innesta batteria, basso, chitarra elettrica e tastiere. Dopo una ripresa del
tema iniziale con vari break si inserisce anche l’organo ed un assolo di
chitarra elettrica di impostazione hard ma melodico.
Un
pezzo con un afflato epico ed alcune sonorità di tastiere che richiamano
i Goblin del periodo Notturno.
Dark blue(s) (Pignatelli, 4’57”). Pochi suoni atmosferici, entra la batteria a tenere il più classico dei
tempi blues, si innestano le note calde dell’organo, tappeto sonoro ideale per
la chitarra elettrica che prima esegue il tema e poi parte in un assolo
malinconico al termine del quale inizia la variazione sul tema, più scandita e
contrappuntata da un coro di voci campionate.
Lo stupore è stato generale quando
si è saputo che i Goblin avrebbero incluso un blues nel nuovo album. La cosa
non mi ha colto di sorpresa, in fondo L’alba
dei morti viventi era già un blues, quella cadenza rendeva bene l’andatura
caracollante degli zombi. E poi stiamo parlando di musicisti che hanno iniziato
a suonare alla fine degli anni ’60 quando il blues veniva riletto ed aggiornato
da band come Cream e Led Zeppelin, quel genere fa parte del loro dna musicale.
Pignatelli (che suona le tastiere e sostituisce Guarini) serve a Morante un
piatto prelibato ed il chitarrista sfodera un assolo di maniera (perché
rispetta tutti i dettami classici) ma perfetto che me lo riporta d’incanto
negli anni ’70, in attesa del diavolo al crocicchio... C’è chi ha fatto
paragoni con Gilmour (suppongo per alcune note alla Shine on you crazy diamond) ma a me è venuto in mente Joe Bonamassa
non tanto per qualche debito (Morante è un chitarrista molto personale) ma per
la rispettosa adesione agli stilemi classici del blues. La seconda parte del
brano con il tema suonato all’unisono da chitarra, basso e tastiere
contrappuntato dal ‘coro’ e un po’ rovinato dall’uso troppo insistente delle
voci campionate ed in primo piano che finiscono per oscurare il fraseggio
finale di Morante, sarebbe bastato sfumarle prima o tenerle più basse nel mix.
Comunque, chapeau.
Love & hate
(Pignatelli, 5’25”). Un loop isterico di tastiere, scandito progressivamente
dalla batteria e dalla chitarra elettrica con un synth a ricamare un tema. Il
pezzo si ferma e si apre dolcemente ad un arpeggio di tastiere, ad un synth
flautato, al pianoforte che conducono ad un bridge e quindi alle armonie della
chitarra elettrica su cui si innestano nuovamente le scansioni aggressive di
batteria a riprendere il tema iniziale, questa volta eseguito dalla chitarra
elettrica.
Il pezzo, come il titolo chiarisce,
alterna sezioni aggressive (‘Hate’) poste all’inizio ed alla fine che rimandano
allo stile progressivo dei Rush (YYZ)
con una dolce (‘Love’) in cui, dopo un giro di tastiere simile a quello di Profondo rosso, vengono evocate le
atmosfere, care a Pignatelli, di Jennifer,
impreziosite dalle note di Morante.
Bon ton ed il
trittico composto da Pignatelli (Kingdom,
Dark blue(s), Love & hate) mi fa pensare ad uno score per un noir di Michael
Mann.
Miami,
notte, i neon, le insegne luminose, un auto sfreccia guidata da un uomo, un
criminale che ha deciso di cambiare vita dopo un ultimo colpo, per dare un
futuro alle persone che ama e che da poco ha ritrovato. Ma è stato incastrato
dai complici che lo vogliono morto, così come la polizia. Lo inseguono: venderà
cara la pelle…..
008 (Morante,
Pignatelli, Guarini, 5’16”) Un riff di chitarra elettrica di poche note in eco,
entra la batteria a segnare un quadrato mid tempo, il basso pulsa potente,
contrappuntato dall’organo in chiave funky, il synth esegue un tema semplice a
cui segue il refrain. Dopo aver ripetuto questa sequenza, si innesta una sezione
più oscura in cui i synth rielaborano il tema in modo drammatico per poi
riprendere lo sviluppo iniziale.
Il riff elementare di chitarra (doppietta
di due note, pausa, tripletta con aggiunta di una nota), proprio perché così
semplice, è di quelli che si conficcano micidiali in testa e, rallentato,
potrebbe diventare un classico giro alla Black Sabbath. Il brano è costruito in
modo tradizionale, in pratica come una canzone, tanto che non ho difficoltà ad
immaginarmi la voce un po’ lagnosa di Ozzy Osbourne che intona la versione
sabbathiana di 008, ‘Hell to pay’,
storia che potrebbe diventare un episodio di una serie televisiva fantastique.
Jack,
giocatore d’azzardo professionista, vive in modo dissoluto vincendo grosse
somme a poker che poi spende in belle donne e vizi vari. Quando scopre di avere
poche settimane di vita perché colpito da un male che non lascia scampo, Jack
pensa di sfidare il diavolo a poker: in palio salute e ricchezza qualora
dovesse vincere e la dannazione eterna in caso di sconfitta. Jack arrivato in
vantaggio all’ultima mano, si trova servito di un full e punta tutto ma il
diavolo lo ‘vede’ e beffardo gli cala un poker di Re, un ‘four of a kind’. A
Jack, sconfitto, non restano che pochi giorni di vita, poi avrà l’inferno per
pagare il suo debito….
Recensione pazzesca, è persino meglio che ascoltare il disco!
RispondiEliminaFabio sei un grande. E poi che figata i film mentali. La trama di Profondo Rosso 2 è geniale, con quei rimandi ed incastri!
Ciao. Molto bella la rece, Fabio. Mi piacerebbe però sapere da te, e anche da altri fans, quali emozioni ti ha lasciato davvero il disco. Forse io avevo delle aspettative che difficilmente avrebbero potuto essere soddisfatte.
RispondiEliminaDopo numerosi ascolti la mia opinione non è molto cambiata. A mio parere, si tratta di un buon disco, ascoltabile e anche, in alcuni pochi frangenti, godurioso. Ma mancano 2 cose, secondo me essenziali in un disco dei Goblin che si rispetti:
1 - l'audacia. Il sapere dove osare.
2 - l'essere al passo coi tempi e saperli re-interpretare aggiungendo qualcosa di geniale.
Purtroppo queste 2 cose mancano del tutto, e mi dispiace perchè i musicisti coinvolti ce la potevano fare. Forse manca qualcosa in studio, la scintilla...e ci può anche stare in musicisti di quell'età che alla fine non hanno nemmeno nulla da dimostrare. Quindi non sto certo qui a rimproverarli, ci mancherebbe.
Michele
Sposo la tesi di Michele qui sopra.
RispondiEliminaRiscrivo per la seconda volta i miei pensieri perchè la prima versione è saltata via con la corrente senza "save as"... (Porc...!!!!)
Copertina orrenda. Da bruciare in piazza come i roghi dei libri. Fa venire nostalgia persino dei patchworks di merda dei CD Cinevox fine anni '90.
Prodotto autoreferenziale. Salvo "Uneven Times" (capolavoro assoluto) e "Love and Hate". Il resto è bellissimo ma dannatamente di mestiere (non voglio nemmeno più ascoltare "Bon Ton" col giro di basso di "Heart of the Sunrise" degli Yes). Colpa dei Goblin che essendo dei mostri mi hanno abituato a dei masterpiece a ogni brano.
Intendiamoci: averne album così belli, registrati mille volte meglio di BTTG2005 e artisticamente superiori a "n" potenza a qualsiasi prodotto dei Simonetti's Gobleonia. Però... Però...
Avete ascoltato "Requiem for X" dal prossimo "Goblin Rebirth"?
Ecco. Ho l'impressione che mi piacerà di più quello.